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Anno del signore 2015, da qualche parte negli amari mari del sud.

Io amaro mare del sud

confino a nord col piacere,

ancora più a sud con l’odore,

a est con la salsedine e

a ovest col paradiso di limoni,

e l’agrumeto della mia infanzia

dove andavamo a misurarci il pisello,

e a guardare i primi giornaletti porno.

E adesso.

Adesso, a est c’è questo grosso cazzo a forma di cannone che fronteggia l’orizzonte languido da cui arrivano barconi carichi di fame, e storie, e speranze, e morti secchi al sole.

E alcuni giù nella profondità dell’abisso.

A nord c’è la befana svizzera col carbone. Forse abbiamo fatto i cattivi, forse abbiamo sbagliato qualcosa, forse abbiamo continuato a guardarci il cazzo mentre qualcuno decideva per noi

Chi può dirlo!?

A sud non c’è speranza, c’è una stretta lingua di asfalto che collega Taranto al nulla, l’Ilva alla liquilchimica, la liquilchimica all’inceneritore di Gioia Tauro, le nostre pugnette alle seghe di mezzo meridione.

E smettiamola coi briganti:

il passato è passato,

ho un presente che è dio e fa la ciminiera.

Mentre penso a Milazzo

che fa rima con cazzo

che non sapevo cosa scrivere quindi ho usato questo stratagemma:

la rima, per l’appunto.

Abbiamo perso pure la fantasia nella Città delle sole

mentre Suonato Campanella ride alle nostre spalle

E scappa a scrivere altre storie

Mentre si estingue l’ultima fenice

E le pecore fanno i lupi

E i lupi fanno le pecore

e ti prego, ti supplico, signore delle bugie, fa’ che anche questa volta io possa sentire la sveglia.

ESPROPRIO ESISTENZIALE

È venuto vermiglio tra gli spasmi

e la giungla di labbra

che serrati lingua e sessi ci teneva

stretti in plastiche forme d’intesa

l’amore.

Baci mozzafiato, spezzacollo

famelica torsione d’ogni membro

distorta gravita d’ogni grammo

su questo letto

su questa zattera

che batte bandiera nera

che scricchiola

ci puoi trovare tutto il necessario

anche la parola giusta

magari sotto coperta

magari nudi, sul ponte

appiccicati come due frutti di mare

come due calamite

come due calamari

succhiandoci a vicenda

impollinandoci

per creare eserciti di pirati

per non arrendersi alla malora

a questa terra così ferma

a questa calma così piatta

a questi amori già stanchi

che ci circondano

e tolgono il respiro

inquinano

depotenziano

marciscono

al sole di un’altra estate

che non è loro

che non lo è mai stata

che mai lo sarà.

 

Cala la scialuppa, andiamo a prendercela

passami una penna, il mantello e il retino per le farfalle

oggi è il gran giorno:

esproprio esistenziale

arrembaggio

chiamalo come vuoi

venderemo cara la pelle

non tremare

dammi un bacio

andiamo.

La poesia è morta, pisciamo sulla poesia

Morto un poeta se ne fa un altro.

Non c’è niente da ridere:

siamo concime.

Impressionato un poeta si passa all’altro:

siamo carta carbone.

Dimenticato un poeta ne rimane un altro:

siamo usa e getta .

Costruito un poeta se ne consuma un altro:

siamo merce a scadenza.

Santificato un poeta è bello pisciarci,

sul poeta.

I poeti fanno schifo e puzzano

le poetesse battono all’angolo delle strade

i poetucoli continuano a prenderci per i fondelli.

La madre dei poeti è sempre incinta.

Gli operai stanno in fabbrica e non hanno il tempo di scrivere poesie.

Le fabbriche non producono poesie

le poesie non raccontano fabbriche

le favole non raccontano gli operai.

È tutto scientemente al contrario.

Parliamo col culo

scriviamo coi piedi

ci amiamo a livello corticale dimenticandoci del ruolo fondamentale dell’ippocampo nei processi di accoppiamento.

Mentre un migliaio di apparecchi elettronici scandiscono i nostri amplessi

avvolgono i nostri orgasmi

portano a pisciare il cane

coccolano i nostri figli

cucinano i nostri appetiti

raccontano minoranze sacrificate al libero mercato.

Cervelli spappolati da Dan Brown

Osho

Oriana Fallaci

l’ultimo libro di Umberto Eco

Bruno Vespa e Roberto Saviano.

Non vedrete mai un poeta sotto scorta

Al poeta non frega nulla dei vostri applausi.

Il poeta è Don Chisciotte:

vecchio, pazzo e fiero.

Il capitano Achab

alla disperata ricerca del verso perfetto:

la balena bianca, la perdita del sé.

Il principio che riporta indietro il masso e Sìsifo insieme

il motivo che ti spinge a spingere.

Senza freni in discesa

col vento contro in salita.

Marco Pantani

la prima sega

la prima ruga

l’ultimo verso.

 

Settembre: sette ombre e 5 anarchici.

Indosso le scarpe e inizio a camminare in circolo, inseguendo la mia oscura proiezione nell’ora dell’ombra più corta. Sette ombre per ogni giorno della settimana, sette verità e sette sconfitte. Tre volte sette. Babele è fritta, ma l’equinozio ne pacifica lo smaltimento. I fossi non sembrano fossi, i crateri e i muri scalcinati fanno parte del panorama. In ombra, in attesa dell’ora legale, panacea per la nostra veglia critica; commissari, burattini e spettacoli da circo: Metropolis è qui, adesso. Fritz Lang è mio padre. Cinque compagni vengono uccisi tra Ferentino e Frosinone: il prezzo della verità, di una soltanto. Un velo funebre che non basta mai.

Agosto è causa ed effetto, la prima e l’ultima volta.

Siamo una corda tesa tra un futuro freddo, metallico, forgiato al fragore di mille battaglie e un passato fatto di carne, principii e teologia negativa. L’abisso circonda ogni dove, non c’è terra, non esiste cielo: ovunque è il vuoto. Temperatura stabile, distanza. La corda è un insieme di punti, la corda è un punto, questo preciso momento è infinito. Il passato ritorna futuro, il futuro diventa passato. Non riesco a muovere un passo, sono camminato, sono mosso, sono parlato. Sempre differente, anche morto. Agosto è causa ed effetto, la prima e l’ultima volta.

Luglio, col seme che ti voglio.

Respirare, insonne, accanto ai tuoi incubi. Amore cieco, bieco, stupido, sbilenco. Ancora una volta impiccato all’albero dell’odio e della superstizione psicologista del nostro dare e avere. Causa ed effetto, senso di colpa e mutilazione dei nostri organi genitali, infibulazione, repressione e naia della nostra militanza e appartenenza. Quando tra poche ore aprirò la porta carraia per andare a lavorare, non sarà lo stesso giorno. Esiste, sempre, un libro che nessuno ha scritto, una pagina mancante, una parola da dire e piste da fiutare. Chi spiega la vita con la morte spesso ha in mente di fotterci: usa antropologi come responsabili delle risorse umane, le puttane e i loro sensi di colpa come capri espiatori.

Giugno è un mese di passaggio.

Una breccia nelle vostre intelligenze. Livido, seduto all’angolo di qualche strada, è un secolo che il mio senso della famiglia arrugginisce all’ombra di un portone lontano, distante, come divorato da piccoli roditori instancabili. Come scomparso. La storia è il corpo in avanzato stato di decomposizione che attraversa il corridoio dall’altra parte dello stabilimento. La storia è quella di una guerra farmaceutica per la conquista dei cervelli e delle speranze. Gli esperti di liberazione e frottole tentano con ogni mezzo di scongiurare la pandemia, ma l’attacco ha sortito il suo effetto. In poco più di due mesi il numero dei feriti e dei cadaveri è cresciuto oltre ogni aspettativa. Io rimango immobile e attendo il mio turno. La prossima settimana saremo tutti avviati al più vasto processo di rianimazione e canalizzazione etico-occupazionale degli ultimi tre secoli. Nessun medico e nessun coprifuoco. Nessuna Babele dagli occhi a mandorla. Tutto rigorosamente fatto in casa.